Dopo il terremoto

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Dopo il terremoto: la ricostruzione in Emilia – Romagna contro la cultura di tutela e recupero degli insediamenti storici urbani e rurali.

Il fine della legge della Regione Emilia – Romagna che detta le “norme per la ricostruzione nei territori interessati dal sisma” (n. 16 del 2012) era fissato con parole univoche e impegnative nel preambolo della delibera di proposta della Giunta Regionale. Rileggiamolo: “Confermare il principio che anche la ricostruzione post sisma deve essere attuata nel rispetto della disciplina di tutela stabilita dai piani urbanistici per il centro storico, i nuclei storici non urbani e per gli edifici di valore storico, culturale e testimoniale, promuovendo altresì laricostruzione degli edifici vincolati in conformità alle caratteristiche originarie”.

Sono parole che sembrano riflettere la consapevolezza che questa Regione fu prima nel valorizzare il compito essenziale della pianificazione dettato nella legge fondamentale urbanistica (la legge 1150 del 1942) con la modifica dell’articolo 7 (“contenuti del piano generale”). E dei “vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico” la prima legge regionale di “tutela ed uso del territorio” (n. 47 del 1978) definì una rigorosa disciplina ispirata ai principi del restauro urbano nella considerazione dei centri storici come unitari monumenti, disciplinando le differenziate categorie degli interventi ammissibili (in ragione delle caratteristiche dei singoli elementi compositivi scrupolosamente identificati e analizzati anche con riguardo alle condizioni conservative) e tutti orientati al recupero della autenticità dei tessuti edilizi. La tutela urbanistica è operante pure nei confronti degli edifici riconosciuti di interesse storico artistico secondo la legge dello stato, concorrendo con l’esercizio della tutela statale di settore; e la disciplina di “restauro scientifico” con le sue obbiettive regole di piano è spesso assai più efficace della gestione discrezionale e incontrollabile dei vincoli di soprintendenza. Di fronte a edifici di recente trasformati in modi offensivi della qualità urbana storica, e in presenza di documentazione sicura dell’assetto autentico preesistente, è prevista e normata pure la categoria di intervento per ripristino tipologico con vincolo di demolizione e ricostruzione su quel documentato modello. Converrà ricordare che alla definizione della normativa degli interventi nei centri storici la giunta di allora chiamò a collaborare l’Istituto regionale dei beni culturali e determinante fu il contributo di Pier Luigi Cervellati e Romeo Ballardini (Ballardini presiedette poi la prima commissione ministeriale incaricata di stabilire i criteri di adattamento dei dispositivi antisismici ai beni monumentali).

A questi indirizzi, sostanzialmente confermati nell’Allegato alla più recente legge regionale 20/2000 (Contenuti della pianificazione/Capo A-II/Sistema Insediativo Storico), la pianificazione comunale si è generalmente attenuta con convinta adesione e anche i comuni terremotati sono dotati di vigenti piani regolatori che dettano una stringente normativa specifica di attuazione degli interventi nel centro storico e nelle architetture rurali tradizionali. Vi è prevista e prescritta la ricostruzione (“in conformità alle caratteristiche originarie”, ribadisce la Giunta nel preambolo che abbiamo or ora letto) degli edifici a vario titolo vincolati e assoggettati a restauro o risanamento conservativo, per qualsiasi evento traumatico danneggiati e perfino integralmente demoliti. Insomma in Emilia Romagna la ricostruzione del dov’era com’era è vincolo di legge e di piano regolatore, pur se mostrano di ignorarlo i “maestri” al sostegno della cui autorevolezza di restauratori universitari si affidano gli organi del ministero dei beni culturali insediati in questa regione.

Ebbene, tutto al contrario, ignorato l’impegno assunto nel preambolo della delibera di Giunta, sorprendentemente l’art. 6 della legge, dopo aver ribadito (comma 2) che gli interventi di riparazione e ripristino con miglioramento sismico sugli edifici di interesse storico–architettonico, culturale e testimoniale individuati dalla pianificazione urbanistica saranno attuati secondo la relativa disciplina di tutela, nel consecutivo comma 3 dichiara decaduta quella disciplina “nel caso di edifici vincolati dalla pianificazione interamente crollati a causa del sisma, o demoliti in attuazione di ordinanza comunale emanata per la tutela della incolumità pubblica”. E apre la stessa disposizione trasgressiva ad una applicazione generalizzata: con una espressione rivelatrice (“nei restanti casi”) rimette ai riconosciuti “interessati” di asseverare, con “apposita perizia” di progettista abilitato, che il documentato “pregiudizio strutturale e funzionale prodotto dal sisma non consente il recupero dell’edificio se non attraverso la completa demolizione e ricostruzione dello stesso”. Non è l’amministrazione comunale che assume nella sua responsabilità la rigorosa verifica, ma al contrario si affida alla discrezione tecnica, “asseverata” e in pratica incontrollabile, degli “interessati”, aprendo ad applicazioni perfino indiscriminate, come è avvenuto nell’immediato post sisma con precipitose demolizioni disposte dalla protezione civile e assentite dalla direzione regionale beni culturali per edifici che, a motivato giudizio di esperti strutturisti, con minor spesa sarebbero potuti esser messi in definitiva sicurezza.

Il vigente vincolo di piano regolatore a restauro o risanamento conservativo (ma insieme quello di ripristino tipologico) impone, già si è ricordato, la ricostruzione pure per gli edifici integralmente crollati e dunque questa brutale decadenza per legge è la via necessitata per escludere la prescritta ricostruzione. Senza una norma come questa neppure direzione regionale per i beni culturali e soprintendenze potrebbero coltivare (come invece vanno facendo, contro i fini istituzionali, anche con definiti progetti illustrati in pubblici convegni) stravaganti ipotesi alternative al doveroso restauro – recupero per i beni monumentali soggetti alla loro tutela (imposto dall’art.29/4 del codice dei beni culturali), immaginando perfino di affidarsi al riguardo all’alea di concorsi internazionali. Una norma irragionevole, questo comma 3 dell’art. 6, che condanna alla definitiva perdita l’edificio monumentale o di interesse storico o ambientale se colpito dal sisma. Mentre rimane ferma la prescrizione di doverosa fedele ricostruzione se diversa fosse la causa del crollo, collasso strutturale, incendio o trasgressiva demolizione intenzionale.

La soppressione del vincolo conservativo per i singoli edifici apre per altro una lacuna nella relativa disciplina urbanistica che la legge regionale 20/2000 (Allegato Contenuti della pianificazione Capo A-II Sistema Insediativo Storico ART.A-7 Centri storici) affida al PSC e dunque all’estro estemporaneo, senza regola, rimane affidata la soluzione alternativa alla fedele ricostruzione.

Ma la più radicale smentita dei propositi dichiarati dalla giunta regionale (nel preambolo alla sua proposta) sta nella facoltà data ai comuni di provvedere con il “piano della ricostruzione” come configurato nell’art.12, funzionale a profonde trasformazioni dell’insediamento urbano e pure nell’ambito dei centri storici, che nei vigenti piani regolatori sono analiticamente disciplinati con riguardo ad ogni elemento compositivo e anche in funzione del recupero dei valori urbani originari; mentre degli interventi ammissibili su ciascun edificio ed UMI le norme attuative del piano dettano una specifica disciplina, esauriente pure per la eventualità di gravi danni subiti per il sisma.

Il “piano della ricostruzione” è dato ai comuni per l’attuazione di interventi che dei centri storici negano con tutta evidenza la speciale natura e dunque si pongono in assoluto contrasto con i principi conservativi di cui sono invece espressione i vigenti piani regolatori. Costituisce infatti il plateale scardinamento della cultura del recupero e del restauro urbano la previsione (comma 3 dello stesso articolo 12) che “il piano può disciplinare interventi di modifica della morfologia urbana esistente, attraverso interventi di demolizione e ricostruzione con variazione delle sagome e dei sedimi di ingombro”, al dichiarato “scopo” di “ricreare nuovi valori dell’ambiente urbano” (come se al sisma possa imputarsi di aver reso “quelli originari non più recuperabili”). Si tratta di Interventi, questi sì (più del sisma) dirompenti, che non possono essere seriamente motivati dalla condizione di eccezionalità e emergenza provocata dal terremoto ma che nel terremoto trovano il pretesto per legittimarsi contro il principio del restauro urbano e così derogare alle norme di attuazione dei vigenti piani regolatori per i centri storici conformi alla vincolante disciplina generale dettata dal richiamato art. 4-7 Centri storici dell’Allegato alla legge 20 sui “contenuti della pianificazione”. Mentre il comma 4 dello stesso art. 12 affida al piano della ricostruzione il compito di provvedere “con riguardo agli edifici danneggiati, alla revisione della disciplina di tutela stabilita dalla pianificazione urbanistica”. Il terremoto insomma come l’occasione per una generale liberatoria dalle ordinarie regole di attuazione del piano regolatore e la una ricostruzione contro ogni tutela.

Sono considerazioni, queste, che motivano il fermo rifiuto di principio dello “specifico piano, denominato <piano della ricostruzione>” per l’intero insediamento urbano e rurale, la cui adozione la legge rimette alla mera facoltà discrezionale dei singoli “comuni interessati dal sisma” e per ciò stesso configura come misura non necessitata dalle effettive esigenze della ricostruzione che negli strumenti ordinari della pianificazione ben possono trovare la loro esauriente e più corretta soddisfazione. Un simile speciale strumento, concepito come eventuale, perciò non funzionalmente imposto dal compito della ricostruzione, si presta, quando non ad impieghi pretestuosi, certo ad applicazioni che sovvertono il meditato ed equilibrato disegno della vigente pianificazione o ne compromettono la complessiva coerenza, con indulgenza a delocalizzazioni di funzioni consolidate nei tessuti esistenti e alla diffusione di nuovi insediamenti anche residenziali (che l’indicazione finale di cautela del comma 7 dell’art. 12 non varrà a contenere), pure attraverso il problematico (art. 13 legge 241/ 1990) ricorso all’accordo di pianificazione con i privati.

Non si vorrebbe che questa disciplina trasgressiva dei principi di tutela degli insediamenti urbani e rurali della tradizione, non giustificata dalla evenienza eccezionale del sisma (cui l’ordinaria pianificazione è capace di rispondere adeguatamente) sia l’annuncio di un generale mutamento di indirizzi, l’avvio all’abbandono definitivo, insomma, dei principi di salvaguardia delle consolidate identità che caratterizzano il territorio storico della regione Emilia – Romagna.

Non rimane che fare affidamento sulla responsabilità delle comunità locali che, gelose della propria identità – diversità, sappiano rifiutare il ricorso agli stravolgenti piani della ricostruzione da questa cattiva legge regionale messi a loro disposizione.

Bologna, gennaio 2013.

Italia Nostra, consiglio regionale dell’Emilia – Romagna.

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